Si tratta di un "work in progress dal 1986", di una delle serie dedicate ai personaggi storici, nati e/o soggiornati nella sua città (Giordano Bruno, Giulio Romano, J.Caramuel y Lobkowitz, etc,), definita dal Vasari come "...una delle meraviglie antiche", parlando di Giulio Romano, nelle sue "Vite". Una serie che vuol essere una sorta di rivisitazione, reinterpretazione e/o sostituzione dei personaggi, scambiando le date, scambiando i periodi, scambiando i nomi. Rendendo un omaggio con affetto, con ironia, con convinzione.
Rivendicando un'identità, legata in questo momento, soprattutto ai rischi della globalizzazione, con una cultura del vuoto sempre piu' dominante. Da un lato si tratta di un omaggio e di una rivisitazione, dall'altro vuol essere un pretesto. Un pretesto per resistere a questa invadenza del vuoto, che si registra in questo nostro sistema sempre piu' globalizzante. Un pretesto per ridiscutere di arte, nelle sue discussioni formali, ma soprattutto nelle idee e nei contenuti, dove il mezzo,per Riviello, e' solo una consequenziale scelta soggettiva.
Nel caso di questi lavori (ad eccezione dei tondi in ceramica a cera sarda), si tratta di pittura: colori acrilici e gouache su carta intelata e acrilico e tecnica mista su tela. Il disegno si compone di due ovali dello stesso emblema. Uno e' riportato in bianco e nero, fedelmente all'originale, e l'altro invertito e reinterpretato con la pittura, e spesso anche con i titoli tradizionalmente intesi, dove pare che l'artista si diverta, accompagnati dalla tecnica di esecuzione, con la data e con la dimensione dell'opera. Moscato e' il cognome di sua madre.
La mostra e' accompagnata, negli stampati, da due lettere all'autore, di Gelsomino D'Ambrosio (teorico e ricercatore grafico di comunicazione visiva - art director di Segno Associati di Salerno e docente all'I.S.I.A. di Urbino) e di Antonio d'Avossa (critico d'arte - docente all'Accademia di Belle Arti di Brera di Milano).
Comunicato stampa dalla mostra al Centro Culturale Puskin Via Bernardino Verro, 15 - 20142 Milano 21 maggio 15 giugno 2002 ore 19,00
Lettere
Caro Angelo,
mi chiedi di scriverti una lettera che chiamerò “aperta” perché pubblica, in nome della nostra amicizia e dei nostri comuni ricordi.
Mi chiedi, altresì, del reciproco rapporto con un personaggio storico come Giulio Cesare Capaccio, un rapporto che posso immaginare triangolare per i molti rimandi sia geografici che culturali tra noi e lui.
Questo triangolo per le comuni radici e le frequentazioni discontinue può rimandare, come tu suggerisci nella tua precedente lettera, ad alcuni luoghi precisi come Napoli, Paestum, ecc.. Ma istintivamente a questi luoghi io ne sostituirei altri come: Campagna, Roma, Urbino.
Inizio con Campagna. Nel mio ricordo è la città dove uno spazio diventa un’immensa lavagna grigia, noi due vestiti, con i grembiuli neri (o forse bianchi) e il nastrino che mutava colore di anno in anno, chinati, inginocchiati e a volte distesi a disegnare con “mozziconi” di gesso in una gara priva di vincitori con l’unico desiderio di scoprire i segreti del disegno; un linguaggio che ancora ci accompagna quotidianamente con servizievole sollecitudine.
Infine, sporchi di gesso, con le mani e i grembiuli imbiancati di “purezza” come uno scriba medioevale dopo le preghiere, abbandonavamo quella lavagna o più esattamente quel “largo” ancora oggi dedicato a Giulio Cesare Capaccio.
A Campagna segue Roma. I vertici del triangolo in questa città sembrano allontanarsi, perché nei nostri ricordi questo luogo ci parla dei primi studi, dell’incoscienza di vivere, e delle prime conquiste culturali. Sole e pioggia, estati caldi e inverni ventosi, cene “rubate” e mattinate sonnolenti in via dei Serpenti, in seguito in via Crispi, in via Margutta e a Trastevere tutto veniva macinato nell’allegro mulino della gioventù.
Per il terzo vertice del triangolo sono, quelli romani, anni oscuri. Giulio Cesare Capaccio cerca l’attenzione dei potenti: celebrando fasti e pubblicando odi ma con malinconici risultati, restando sostanzialmente ai margini della vita intellettuale della Capitale.
Per lui le estati saranno caldissime e gli inverni freddissimi, forse il “sapere” non sarà stato sufficiente ad alleggerire i primi segni della vecchiaia ed ad allontanare il dolce ricordo di Campagna.
Infine Urbino. La città dove da oltre dieci anni insegno in un Istituto – come tu scrivi – specifico a carattere universitario e/o accademico (e/o mi ricordano molto gli anni sessanta), in questa città-nave che si erge sulle colline mille volte incisa e dipinta nel corso “morbido” del tempo.
La città-nave solca queste colline e nei giorni di neve o di nebbia sembra emergere in un mare bianco e umido, in una posizione perfettamente inversa a Campagna, che invece di innalzarsi, sprofonda, mantenendo, però gli stessi umori che si infiltrano tra le pietre e i mattoni, tra l’acciottolato o i “basoli”.
Forse la stessa sensazione l’avrà provata il più importante campagnese che ha attraversato queste strade, giunto fin qui, chiamato da Francesco Maria II della Rovere con l’incarico di soprastante della Biblioteca Ducale, più attento alla politica e al matrimonio tra Federico Ubaldo e Claudia dei Medici che ai libri.
Come puoi facilmente immaginare l’illustre campagnese non è altro che Giulio Cesare Capaccio.
Salerno, 15 maggio 2002
Gelsomino D’Ambrosio
Caro Angelo,
ricordo con chiarezza l’occasione del nostro primo incontro. A metà degli anni settanta, in casa di Angelo Trimarco a Salerno, sul pavimento ricoperto di una moquette grigia disponevi una sequenza di fotografie non molto grandi tutte incorniciate singolarmente, ricordo lo sfondo di un cielo azzurrissimo un piccolo aereo di carta, e la tranquillità incuriosita del Professore e del suo assistente, io stesso.
Da allora sono passati molti anni, e tu sei ricomparso in un mio soggiorno in Costa Amalfitana, dove al ruolo di artista affiancavi progetti di esposizioni a Campagna, la tua città, dove ti adoperavi per rendere meno provinciale la vita. Non posso dire di averti seguito in questi anni. Il mio lavoro e la mia vita hanno spesso spinto l’attenzione a differenti climi culturali e pratiche dell’arte. Da qualche anno sei ritornato a Milano dove attraverso comuni amici hai voluto rintracciarmi, chiedendo spesso una mia opinione sul tuo lavoro.
La mia idea nei tuoi confronti è sempre stata molto distesa. Ti ho consigliato di procedere lungo quel singolare percorso che avevi scelto. A partire da Giordano Bruno continuando per Giulio Romano sino a quel Giulio Cesare Capaccio con cui pare ti incontri per questa mostra. Buona l’idea! Ma migliore ancora quella di esporre in un centro culturale fuori dalle logiche di gallerie milanesi più o meno per bene. La singolarità del tuo lavoro si esprime da sempre fuori da queste logiche. Vuol dire che sei un artista isolato. No, credo che tu sia uno dei tanti artisti che non cede al ricatto del supermercato dell’arte, ma organizza la sua ricerca per un piacere di radicate incertezze nell’universo di una cultura visiva che non dimentica che insieme (e non prima) all’arte convivono letteratura, scienza, visioni e utopie.
Di queste certezze è costruito il tuo lavoro, raro e rarefatto, dove ora a elefanti ed emblemi, motti e striscioni, associ colori e geometrie, infine nomi come quello di Capaccio, quasi a consolarti (e a consolarci) di quella perdita, sofferta e voluta, per quel cielo azzurrissimo che in questa città, senza firmamento e senza paesaggio, continua a mancarci tanto.
Un saluto all’ombra delle idee.
Milano, 18 maggio 2002
Antonio d’Avossa
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