lunedì 13 settembre 2010

Lettere

Caro Angelo,

mi chiedi di scriverti una lettera  che chiamerò “aperta” perché pubblica, in nome della nostra amicizia e dei nostri comuni ricordi.
Mi chiedi, altresì, del reciproco rapporto con un personaggio storico come Giulio Cesare Capaccio, un rapporto che posso immaginare triangolare per i molti rimandi sia geografici che culturali tra noi e lui.
Questo triangolo per le comuni radici e le frequentazioni discontinue può rimandare, come tu suggerisci nella tua precedente lettera, ad alcuni luoghi precisi come Napoli, Paestum, ecc.. Ma istintivamente a questi luoghi io ne sostituirei altri come: Campagna, Roma, Urbino.

Inizio con Campagna. Nel mio ricordo è la città dove uno spazio diventa un’immensa lavagna grigia, noi due vestiti, con i grembiuli neri  (o forse bianchi) e il nastrino che mutava colore di anno in anno, chinati, inginocchiati e a volte distesi a disegnare con “mozziconi” di gesso in una gara priva di vincitori con l’unico desiderio di scoprire i segreti del disegno; un linguaggio che ancora ci accompagna quotidianamente con servizievole sollecitudine.
Infine, sporchi di gesso, con le mani e i grembiuli imbiancati di “purezza” come uno scriba medioevale dopo le preghiere, abbandonavamo quella lavagna o più esattamente quel “largo” ancora oggi dedicato a Giulio Cesare Capaccio.

A Campagna segue Roma. I vertici del triangolo in questa città sembrano allontanarsi, perché  nei nostri ricordi questo luogo ci parla dei primi studi, dell’incoscienza di vivere, e delle prime conquiste culturali. Sole e pioggia, estati caldi e inverni ventosi, cene “rubate” e mattinate sonnolenti in via dei Serpenti, in seguito in via Crispi, in via Margutta e a Trastevere tutto veniva macinato nell’allegro mulino della gioventù.
Per il terzo vertice del triangolo sono, quelli romani, anni oscuri. Giulio Cesare Capaccio cerca l’attenzione dei potenti: celebrando fasti e pubblicando odi ma con malinconici risultati, restando sostanzialmente ai margini della vita intellettuale della Capitale.
Per lui le estati saranno caldissime e gli inverni freddissimi, forse il “sapere” non sarà stato sufficiente ad alleggerire i primi segni della vecchiaia ed ad allontanare il dolce ricordo di Campagna.

Infine Urbino. La città dove da oltre dieci anni insegno in un Istituto – come tu scrivi – specifico a carattere universitario e/o accademico (e/o mi ricordano molto gli anni sessanta), in questa città-nave che si erge sulle colline mille volte incisa e dipinta nel corso “morbido” del tempo.
La città-nave solca queste colline e nei giorni di neve o di nebbia sembra emergere in un mare bianco e umido, in una posizione perfettamente inversa a Campagna, che invece di innalzarsi, sprofonda, mantenendo, però gli stessi umori che si infiltrano tra le pietre e i mattoni, tra l’acciottolato o i “basoli”.
Forse la stessa sensazione l’avrà provata il più importante campagnese che ha attraversato queste strade, giunto fin qui, chiamato da Francesco Maria II della Rovere con l’incarico di soprastante della Biblioteca Ducale, più attento alla politica e al matrimonio tra Federico Ubaldo e Claudia dei Medici che ai libri.
Come puoi facilmente immaginare l’illustre campagnese non è altro che Giulio Cesare Capaccio.

 Salerno, 15 maggio 2002

 Gelsomino D’Ambrosio



Caro Angelo,

ricordo con chiarezza l’occasione del nostro primo incontro. A metà degli anni settanta, in casa di Angelo Trimarco a Salerno, sul pavimento ricoperto di una moquette grigia disponevi una sequenza di fotografie non molto grandi tutte incorniciate singolarmente, ricordo lo sfondo di un cielo azzurrissimo un piccolo aereo di carta, e la tranquillità incuriosita del Professore e del suo assistente, io stesso.

Da allora sono passati molti anni, e tu sei ricomparso in un mio soggiorno in Costa Amalfitana, dove al ruolo di artista affiancavi progetti di esposizioni a Campagna, la tua città, dove ti adoperavi per rendere meno provinciale la vita. Non posso dire di averti seguito in questi anni. Il mio lavoro e la mia vita hanno spesso spinto l’attenzione a differenti climi culturali e pratiche dell’arte. Da qualche anno sei ritornato a Milano dove attraverso comuni amici hai voluto rintracciarmi, chiedendo spesso una mia opinione sul tuo lavoro.

La mia idea nei tuoi confronti è sempre stata molto distesa. Ti ho consigliato di procedere lungo quel singolare percorso che avevi scelto. A partire da Giordano Bruno continuando per Giulio Romano sino a quel Giulio Cesare Capaccio con cui pare ti incontri per questa mostra. Buona l’idea! Ma migliore ancora quella di esporre in un centro culturale fuori dalle logiche di gallerie milanesi più o meno per bene. La singolarità del tuo lavoro si esprime da sempre fuori da queste logiche. Vuol dire che sei un artista isolato. No, credo che tu sia uno dei tanti artisti che non cede al ricatto del supermercato dell’arte, ma organizza la sua ricerca per un piacere di radicate incertezze nell’universo di una cultura visiva che non dimentica che insieme (e non prima) all’arte convivono letteratura, scienza, visioni e utopie.

Di queste certezze è costruito il tuo lavoro, raro e rarefatto, dove ora a elefanti ed emblemi, motti e striscioni, associ colori e geometrie, infine nomi come quello di Capaccio, quasi a consolarti (e a consolarci) di quella perdita, sofferta e voluta, per quel cielo azzurrissimo che in questa città, senza firmamento e senza paesaggio, continua a mancarci tanto.

Un saluto all’ombra delle idee.

Milano, 18 maggio 2002
  
Antonio d'Avossa                                                





Caro Angelo,

scusami se ti scrivo così tardi rispetto ai vecchi propositi, è inutile dirti che si è impegnati su tanti fronti.
Mi chiedevi di esprimere la mia opinione sul tuo lavoro, immagino passato e presente, poiché ci conosciamo da lunghissima data.
Quando penso a te, mi viene in mente la tua indole buona e pacifica, la tua difficoltà di adattarti ai ritmi coercitivi e a volte violenti della burocrazia di stato nonché alla protervia delle conventicole di ogni specie che sono  di fatto impedimento e ostacolo ad agire e comunicare. Invece si è costretti a tirar fuori le unghie.

Spero che il tuo lavoro proceda. Ricordo la tua ultima mostra a Milano, mi aveva piacevolmente colpito la leggerezza, l'ironia, l'ammirazione che esprimeva, verso quel personaggio che ami.
Ricordo poi con sincera ammirazione, un tuo vecchio lavoro, un video  che registrava una qualunque giornata estiva di un gruppo numeroso di ragazzi della tua terra: è semplicemente meravigliosa la gaiezza il senso di assoluta libertà e autenticità che esprimono giocando. Adesso credo, sarebbe impossibile realizzare qualcosa del genere, non si è più così inibiti, o forse semplicemente è finito il tempo dell'innocenza.
Un lavoro del genere sarebbe piaciuto a Pasolini, non a caso andava a cercare altrove l'innocenza perduta, sconfinando nel tempo e nello spazio. Quel lavoro meriterebbe più fortuna, perchè oltre ad essere una pagina lieve di poesia è anche un documento eccezionale.

Sperando di ricevere presto tue notizie, cordiali saluti

Milano, 19 novembre 2003

Franco Tripodi





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